martedì 15 novembre 2016

Cos'è arte p.2: 99 lupi alla fine del mondo



Se c'é un mondo verso il quale stiamo cercando sempre più spesso di viaggiare indubbiamente questo è Marte. L'”ammartaggio” della sonda Schiaparelli, il 19 ottobre scorso, è solo l'ultimo in ordine di tempo. L'uomo punta su Marte per recuperare tracce di una vita che forse un tempo c'era e poi non c'è stata più, ma potrebbe ancora essere utile alla nostra in termini di conoscenze.

Una delle ipotesi più verosimili è che 'qualcosa' di più o meno improvviso abbia posto fine alle forme organiche che un tempo popolavano quel pianeta, in seguito al fatto di averlo reso non più vivibile. Fantascienza, forse. Ma anche la storia del pianeta Terra probabilmente ha già registrato qualcosa di simile, 65 milioni di anni fa, con la scomparsa improvvisa dei dinosauri.

Giusto per fantasticare, immaginiamo che tutti noi umani improvvisamente lasciassimo il pianeta: magari non in modo tragico o violento, piuttosto perché grazie ad un'accelerazione di conoscenze trovassimo il modo di identificare una Terra gemella più ospitale e capiente, oltre al modo di trasferirci tutti. E mettiamo che nella 'fretta' dimenticassimo di completare le pulzie, lasciando qualche traccia in qua e là sul pianeta originario: che cosa troverebbe quindi, un alieno che arrivasse appena poco dopo che ce ne siamo andati?

Magari l'alieno si imbatterebbe un ufficio informatizzato caduto in disuso. In qualche schermo video rimasto acceso con la riproduzione in loop di filmati pià meno datati, siano essi la cronaca delle persecuzioni di Pinochet o i talk show pre-election day americani. Oppure, qualche manufatto un tempo conteso a caro prezzo, tipo una tela di Fontana o una scultura di Boccioni. Cumuli di materiali edili utilizzati nelle varie epoche, dalla pietra grezza al cemento armato. Vagando tra le nebbia magari l'alieno si arresterebbe difronte ad un gigantesco tronco d'albero millenario posato su un fianco dopo l'abbattimento. E alla fine, chissà, anche un branco di 99 lupi dal ghigno tutt'altro che amichevole, tanto da convincere l'alieno a riprender la via delle stelle.



La fine del mondo, inteso come pianeta umanamente popolato, potrebbe davvero presentarsi in questo modo? Così sembrano azzardare al Centro Pecci, la rinnovata versione del museo d'arte contemporanea di Prato riaperto a metà ottobre dopo tre anni di ripensamenti e lavori. “La fine del mondo” è il nome dell'esposizione di riapertura, in cui quasi per caso mi sono trovato a transitare un sabato pomeriggio. Scelta casuale e fortuita, perché coincisa con una performance di danza che per l'occasione ha attratto all'interno un pubblico eterogeneo e moderatamente animato, realizzando un'atmosfera ben lontana da quella cui solitamente si associa un museo di questo tipo.



Tra famiglie, bambini, universitari in cerca di aperitivo e coppiette di vario gusto sessuale, ho percorso 3mila metri quadri di installazioni in buona parte curiose, a volte coinvolgenti o divertenti. Su tutte cito quella firmata Henrique Oliveira. “transarquitectonica” (Questo è il nome dell'opera) è un percorso che comincia in una galleria di cemento e prosegue tra volte di mattoni, pietre e materiali sempre più grezzi: si continua per decine di metri a ritroso nel rapporto tra l'uomo e la terra, intesa in questo caso come grande 'cava' di materia costruttiva. Alla fine, ci si ritrova all'interno di un grande albero, dal quale si esce con espressione inevitabilmente sorpresa.

la parte finale di Transarquitectonica

interno di Transarquitectonica


Non è l'unica 'opera' che rapisce l'interesse, ma in definitiva quel che colpisce di più è l'insieme, ovvero l'accostamento tra espressioni artistiche (?) fortemente diverse tra loro: per epoche, tecniche, dimensione e messaggio. Dalla proiezione di documentari su dissidenti di vari regimi alla Venere di Savignano, esempio di scultura risalente al paleolitico; dalle “Forme uniche e continuità nello spazio” di Boccioni agli scolari dall'angosciante e vuoto sguardo realizzati da Tadeusz Kandor; fino ai 99 lupi imbalsamati, dislocati in varie pose a fine percorso secondo il volere di Cai Guo Jang.

Boccioni e Fontana

Tadeusz Kandor

Venere di Savignano


Il quesito che resta in testa, all'uscita dalla mostra, non è tanto “come ha fatto” questo o quell'artista a concepire o realizzare l'installazione, quanto il ricorrente dubbio di fondo: anche questa è arte? Dove si pone obiettivamente il confine tra ciò che è e ciò che non lo é?

L'enciclopedia Treccani contrappone due visioni: afferma che “in senso lato, è arte ogni capacità di agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati”; aggiunge poi che “il concetto di arte come tèchne, complesso di regole ed esperienze elaborate dall’uomo per produrre oggetti o rappresentare immagini tratte dalla realtà o dalla fantasia, si evolve solo attraverso un passaggio critico nel concetto di arte come espressione originale di un artista, per giungere alla definizione di un oggetto come opera d’arte. Nell’ ambito delle cosiddette teorie del ‘bello’, o dell’estetica, si tende infatti a dare al termine un significato privilegiato, per indicare un particolare prodotto culturale che comunemente si classifica sotto il nome delle singole discipline di produzione, pittura, scultura, architettura, così come musica o poesia”.

La definizione non fornisce molti elementi per risolvere il quesito; almeno, non a me in questo momento. Potrei provare a cavarmela definendo come “artistica” una espressione che sia originale, unica e irripetibile, creata dall'uomo utilizzando specifiche tecniche compositive, e capace di suscitare un'emozione; ma ciò non basta a delimitare con certezza il campo, ovvero a dire per esempio che Boccioni è arte e Cai Guo Jang no.

E allora?

Il mondo a venire” è un romanzo che lo letto recentemente, nuovo caso di letteratura americana contemporanea che fatico a leggere fino alla fine. In questo libro di Ben Lerner però ad un certo punto i due protagonisti scoprono l'”Istituto dell'arte irrecuperabile”, ovvero un posto dove si raccolgono (e poi si espongono, come nelle 'normali' gallerie e musei) opere che un tempo erano considerate d'arte, ma che per qualche ragione (perlo più un danneggiamento, magari impercettibile) hanno perso tale reputazione. Con gli occhi dei due personaggi si intuisce quanto a volte questa considerazione sia frutto di ragioni soggettive, magari meramente venali, che ben poco hanno a che fare con i cosiddetti 'canoni estetici' di valutazione. Uno di loro, ad esempio, afferma nel libro: “Esaminai la foto di Cartier-Bresson. Era passata dall’essere depositaria di un immenso valore finanziario all’essere dichiarata priva di valore senza subire, per quanto potessi vedere, nessuna percepibile trasformazione materiale: era la stessa cosa, solo totalmente diversa”.

Il dubbio, insomma, perdura. Esco dal Centro Pecci, mentre intorno si è fatta sera. Sotto le luci artificiali risalta la fisionomia dell'edificio-museo, chiaramente assimilabile a quella di un'astronave. A chiarirci i dubbi forse ci penseranno gli alieni.


Vigilante a guardia di Duchamp

sabato 15 ottobre 2016

Le bici di Aiweiwei, i migranti e il dilemma: cos'é arte?


"Forever" - installazione di biciclette-smbolo della Cina com'era


“Questa domanda me la fanno in molti, anche perché di solito non si può. Ma in questo caso sì, è possibile fare foto”. Cortile di palazzo Strozzi, Firenze, un sabato d'ottobre 2016: una quindicina di persone si assembrano attorno a Miriam, conduttrice designata per la visita guidata all'esposizione di Ai Wei Wei in corso nel palazzo; la prima, a quanto pare, che utilizza appieno gli spazi dell'edificio, per l'occasione sgombri di ogni tipo di arredo. La domanda sorge spontanea in diversi, e il nulla osta che la ragazza dà a fotocamere e smartphone dei visitatori smarca già questi ultimi – o almeno me – verso l'impressione di una mostra che non è tale. O meglio: che non di arte qui si tratta, o per lo meno non di quella con la A maiuscola la cui fama è di solito proporzionale al divieto di immortalarla quando esposta pubblicamente.

il serpente realizzato con gli zainetti degli studenti della scuola del Sichuan abbattuta dal terremoto del 2009

la riproduzione in marmo di una delle longarine della scuola del Sichuan piegate dal terremoto

un'altra delle opere 'pensate' da AiWeiWei e realizzata da artigiani di fiducia


Tre indizi fanno una prova, e di lì a poco Miriam ce ne fornisce un altro in questa direzione: “Tranne rare eccezioni, Ai Wei Wei non realizza personalmente le sue opere- precisa - le concepisce, lasciandole poi eseguire a persone di sua fiducia”. Già lo sospettavamo, osservando i circa cento zainetti cuciti assieme in forma di serpente gigante, le casse in legno pregiato che evocano le giovanissime vite perite nel terremoto del Sichuan, le carte da parati con effigi di alpaca e videocamere di sorveglianza; soprattutto, le 950 biciclette a marchio 'Forever' incastrate e impilate una sull'altra. Sul momento, la conferma suona già quasi come una condanna, che sembra pronta per esser conclamata nella Strozzina. Il più basso dei piani espositivi alloggia infatti centinaia di declinazioni dell'estetica-WeiWei in chiave social networks: selfie in ogni dove, e infinite replice del gesto del fucile fatto con la gamba. Tutto fuorché arte insomma: la storia del suo autore appare notevole come esempio di vita travagliata, coraggiosa, dissidente. Ma non propriamente tipica di un'artista.

O sì?

serie di selfie provenienti da tutto il mondo con il medesimo tema: il gesto del fucile

una visitatrice cinese controlla sul suo smartphone la foto appena scattata all'opera sovrastante


All'arte contemporanea si rinfaccia spesso il suo essere commerciale, speculativa, il puntare ad altro piuttosto che ad una genuina espressione creativa. Viceversa, in genere l'espressività artistica dei secoli trascorsi è comunemente più considerata arte 'vera' e spassionata. Se così fosse, allora il messaggio artistico dovrebbe prevalere su tutto e diffondersi il più possibile. Paradossalmente però, un Picasso o una Frida Khalo sono tendenzialmente omessi alla libera riproduzione, mentre un AiWeiWei si può tranquillamente fotografare e condividere, senza che nessuna guida o sorvegliante venga a richiamarci.

Il secondo indizio ci portava a squalificare AiWeiWei dal ruolo di artsta perchè non realizza in proprio le opere, tranne poche eccezioni. Ma allora dovremmo considerare artista solo il Giotto degli affreschi, quelli degli Scrovegni o di Assisi, e non anche quello che disegna il campanile del Duomo di Firenze lasciando ad altri l'onere di erigere i blocchi di marmo uno sull'altro? E il Brunelleschi della cupola, come lo consideriamo? O il Leonbattista Alberti di Santa Maria Novella?

Questioni da salotto o di lana caprina, si potrà obiettare: tanto più che questa disquisizione ci allontana dal vero succo di un'esposizione come quella di AiWeiWei. Che ha provocato il ben poco democratico stato cinese puntando il dito – e l'estro – contro la scelta di costruire scuole con materiali scadenti franate sopra migliaia di bambini nel 2009 (it sounds italian too, indeed..). Che ha volutamente – e mediaticamente – scioccato i perbenisti italiani costellando la rinascimentale facciata di palazzo Strozzi con i gommoni, ad evocare l'infiltrazione dei profughi nel nostro benessere. E alla fine il dubbio più forte è questo: vale la pena, questa mostra? Ha un senso pagare tra i 4 e 12 euro (più altri 9, in caso di visita guidata) per visitarla e 'sensibilizzarsi', quando quei 12 euro sono 5 volte la somma che un richiedente asilo ha a disposizione ogni giorno, durante il suo limbo in Italia?

la facciata di Palazzo Strozzi 'gommonata' da AiWeiWei

Da un punto di vista economico e pragmatico: no. Meglio devolverli direttamente a loro, trovando la forma congrua.
Ma è vero anche che quello che ci sta accadendo intorno non richiede solo risposte di cassa. Richiede anche cambiamenti di pensiero. Perché probabilmente senza quelli la sola 'cassa', che sia diretta o tramite gli sms solidali, prima o poi potrebbe non bastare. E allora anche l'arte, continua ad aver senso. Anche quella d AiWeiWei: perchè anche quella è arte, no?

Uscendo da palazzo Strozzi, pochi passi dopo ci troviamo di fronte Santa Maria del Fiore con il suo campanile, quello di Giotto. E il dubbio ricompare.