mercoledì 11 gennaio 2012

MESSICO E CUPOLE

Puntiamo su nove giorni in formula mista, ben consigliati dall’agenzia di viaggio della ns. città (Il Carroccio Viaggi di Siena): tre giorni in tour nell’interno, punti cardinali i principali siti maya della regione, più quattro di soggiorno sulla riviera con possibilità di spostamenti aggiuntivi da decidere sul posto.
Partenza: volo diretto da Roma, atterraggio a Cancun, mezzanotte circa ora locale, dopo 10 ore di viaggio molto confortevole. Tocchiamo terra ancora col maglione di lana legato in vita, e ci assale subito una vampata di caldo. Prima sorpresa: manca un bagaglio sui due spediti. Non arriverà mai, rimasto ‘orfano’ di targhetta-destino all’aeroporto di Fiumicino. Lo ritroveremo lì al ritorno, intatto, al Lost&found. Prima notte e prima colazione all’Hotel Oasis america: la nostra proprietà di linguaggio dello spagnolo deve ancora… carburare, così ordiniamo per sbaglio una camomilla al posto del the. Ci tradisce anche la fretta, ovvero la necessità di farsi trovare nella hall alle 7.00 come indicatoci dal nostro uomo-tour, che ci ha prelevato la notte prima all’aeroporto. In realtà il tizio non arriverà prima delle 8.30: l’attesa ci “vaccina” da subito sul diverso approccio dei messicani verso il tempo: calma, caffè lungo e possibilmente siesta. La nostra guida simboleggia al meglio questo approccio: si chiama Louis, è di Merida, lavora con un van Ford da 9 posti che conduce a velocità costante e sempre pronto a rallentare con grande anticipo in prossimità dei tanti dossi disseminati sulle lunghe, larghe, e spesso deserte carreteras.
La nostra fortuna è che di quei nove posti ben cinque resteranno vuoti; oltre a noi partecipano al tour due ragazze di Milano, 25 e 27 anni tra loro cugine, e la capienza limitata si rivelerà ideale per “disfructar” al meglio gli appassionati e simpatici racconti di Louis. Con quest’equipaggio lasciamo dunque Cancun dopo poche ore: comincia un lungo tragitto fatto di conoscenza tra di noi e di lunghe strade diritte, solo a momenti intercalate da contadini su tricicli-merci, o maggioloni vecchio stile.
Due ore e mezzo più tardi arriviamo ad Ek-balam, primo nostro contatto con la civiltà maya. In estrema sintesi, ci appassioniamo per la porta triangolare da valicare per recuperare energia, secondo la credenza di cui ci dà conto Louis; ci stanchiamo, e ci estasiamo per la prima vista dalla sommità di una piramide precolombiana; ci incuriosiamo al pensiero delle tante conoscenze ancora sepolte sotto i cumuli di rovine che, di fianco, restano ancora in larga quantità da riportare alla luce.
Poco dopo, puntiamo dritto al cuore dell’antico popolo yucateco: Chichen Itza, preceduta da un buffet nel vicino Hotel Mision, previsto nel pacchetto. Il clima sereno e mite e la presenza non eccessiva di turisti concilia al meglio una visita memorabile al pari delle attese, dove le suggestioni si susseguono: dal suono di Kukulcan, (il serpente piumato, che tutt’oggi campeggia sulla bandiera messicana) riprodotto grazie al battere delle mani di Louis in un preciso punto sotto la piramide principale, al gran cenote nei pressi del quale la guida ci rievoca con grande suggestione i tempi in cui vi si sacrificavano anche i bambini; dal campo di pelota, alle raffigurazioni murali di figure che ricordano indiani e centurioni; fino all’ascensione sulla sommità della piramide principale, vera esperienza-madre per le mie vertigini ma anche per l’osservazione panoramica che se ne consegue.
La strada sulla quale il Ford van ci porta verso Merida, all’ora del tramonto, è quanto di più efficace nel farci percepire la distanza oceanica tra casa nostra e quella terra sperduta dai grandi orizzonti, raramente urbanizzata e poco trafficata. Almeno fino alla città: perché Merida ci appare sul far della sera ordinatamente eccitata, pullulante di gente nelle sue strade rigorosamente intersecate ad angolo retto, piena di luci e modernità.Qui trascorriamo due sere ed un pomeriggio, e questo basta per adottarla a simbolo di quel Mexico che dai trascorsi indigeni ha saputo passare alla tecnologica modernità senza per questo avvilire un spirito sostanzialmente semplice e solare. Una sintesi passabile ma, scopriremo, anche superficiale. La esemplifica bene la piazza principale: da una parte il palazzo del Governatore, gradevole stile ispanico, ben esaltato dalle illuminazioni in vista dell’incombente Natale. Il dramma della storia messicana, dietro l’apparente quiete odierna, affiora nel bel ciclo di tele novecentesche esposte all’interno e dedicate alla contrapposizione maya-conquistadores. Ma è sul lato opposto della piazza, nel più antico edificio costruito dai seguaci di Fernando Cortes e tutt’oggi conservato, che ci imbattiamo duramente nella brutale sottomissione – mentale, prima ancora che fisica – cui los hispanicos hanno costretto le popolazioni autoctone dal 1520 in poi, qui rappresentata in forma di guerrieri che schiacciano la testa degli indigeni.
Ciò che vediamo in due giorni a Merida è significativo in tal senso: l’Avenida Monteyo, lunga successione di lussuose residenze stile Beverly hills, ovvero l’attrazione materializzata verso il modello dominante qual è ritenuto quello bianco, statunitense, ancor più che spagnolo. L’alta densità di indios nelle mansioni lavorative di base, ad esempio nel ruolo di commessa nei negozi in cui ci rechiamo a rimpinguare i nostri guardaroba rimasti orfani di una valigia; all’opposto, l’esclusiva presenza di bianchi nelle posizioni di potere (il Governatore dello stato di Merida, alto e bianco) o nei visi che appaiono in tv. La percezione di questa silente contrapposizione cresce col passare del viaggio: si rafforza con stupore dopo aver ammirato i livelli di cultura e civiltà raggiunti dai maya, osservando la sconvolgente bellezza architettonica di un sito come Uxmal, una parte del quale (il convento delle monache) non a caso è definito dai locali come il loro ‘Colosseo’. Quello della popolazione indigene è uno sdegno sottaciuto, che ci coinvolge mano a mano che la nostra guida ci racconta le vicissitudini della sua famiglia “meticcia”: suocere di origine ispanica che ripudiano figlie desiderose di sposare un uomo indio, cognati indio che si professano ispanici fino alla soglia del matrimonio. Accostiamo nella mente le conoscenze storiche sintetizzate sulla lonely planet, e le descrizioni di Louis circa la veemenza dei conquistadores nel distruggere tracce e conoscenze dei malcapitati maya: ne viene fuori un quadro quantomeno imbarazzante per il nostro essere occidentali. Lontani dall’aver trovato “casa” alla contrapposizione bene-male, prendiamo coscienza anche degli aberranti limiti dei messicani di allora – che dire dei sanguinosi sacrifici umani, perpetrati nella tarda era maya in onore degli dei ? – e di adesso, su tutti la corruzione (pessimo elemento accomunante tra noi e loro). Epperò se “noi”, gli europei di allora eravamo i custodi della civiltà (per di più benedetti dalla Chiesa cattolica) è avvilente ciò che abbiamo fatto al cospetto di chi ritenevamo inferiore, 500 anni fa.
Detto questo, sfatiamo il dubbio che il nostro soggiorno in Mexico sia diventato gradualmente una deprimente autoflagellazione per gli errori della storia. A Merida abbiamo ben mangiato fajitas e tortillas, a Coba abbiamo goduto della contrapposizione tra residui degli antichi insediamenti umani e sterminata foresta tropicale; a Tulum di quella altrettanto splendida tra il tempio del Dio ascendente e l’oceano sottostante. Nel mentre, abbiamo “disfructato” appieno di un efficiente villaggio turistico (il Copacabana, sotto Playa del Carmen), di spiagge bianche larghe e semideserte (nei pressi di Tulum) e dell’allegra simpatia di tanta gente con cui abbiamo trascorso i giorni residui, a cominciare dal barman Carlito, dalla cordialissima servitù del villaggio. E da Manuela e Valeria, le due ragazze con cui abbiamo condiviso quasi tutto il soggiorno in Mexico. Un viaggio dal sorriso automatico, come quello che abbiamo riscontrato nel 90 per cento delle persone; compresi i bimbi e le madri delle favelas campestri. E compresi i muratori dei cantieri di nuove ville sul mare, in riviera maya, che all’ora del pranzo – e della siesta – si siedono ai margini della spiaggia ad osservar turiste. Negli loro occhi puoi vederci di tutto: dalla fierezza dei guerrieri maya, alle paure dei loro antenati sottomessi, alla memoria indelebile di ciò che è stata. Fossimo noi, sotto quegli occhi metteremmo un ghigno; loro aprono un sorriso. E allora ti chiedi, montando sul volo di ritorno per l’italia: chi ha vinto veramente, dal 1500 in poi?
  
Mangiare
Variegata e soddisfacente l’offerta negli hotel prefissati nel tour (Mision Merida, Mision Cichem Itza, Villaggio Copacabana), così come quella scoperta più o meno per caso nelle due serate libere di Merida, al Peon Contreras (di fianco all’omonimo teatro, edificio molto bello). Al Copacabana ci siamo imbattuti in una serata italiana (poco godibile, come previsto) ed una messicana (molto meglio), con tanto di mariachis e café de olla, preparato alla fiamma in gran calderone. Quanto alle pietanze, apprezzabili soprattutto le fajitas o gli arrancheros (carne), il chili con fagioli, le tortillas di mais da accompagnare con carne od altri ingredienti salati, o a colazione (pan-cakes, specie al mision merida, con uovo e caramello) in versione dolce. Notevole la varietà di frutta, anche sconosciuta: su tutti la guayava. Ancora: sopa dea apio (sedano)
 
Bere
L’acqua minerale costa poco, il vino è pressoché assente. Molto più diffusa la birra, in particolare la Dos Equis (2 x), e naturalmente la Corona. E poi naturalmente il Rum, condito in tutte le salse in forma di cocktail e la tequila.
 
Locali
Uno su tutti: il Blue parrot di Playa del Carmen: bordo spiaggia, sabbia come pavimento, sopra la quale ci si accomoda grazie a cuscini giganti e tavolini intrecciati; luce di candele, musica interessante e.. fantasmagoriche esibizioni di acrobati del fuoco. Per il resto, curiosa l’usanza delle altalene (in legno e..liane; chiaramente tropicali) per accomodarsi attorno ai banconi dei locali; lo abbiamo visto a Playa, ma anche sulla spiaggia vicino Tulum.
 
Shopping
Le cose più “indie”, ovvero più autenticamente locali, alla fine le abbiamo trovate nel primo punto di acquisto possibile, dal quale abbiamo inizialmente diffidato perché eravamo all’inizio e ci sembrava che Louis (la nostra guida) ci avesse portato apposta. Si tratta dello spaccio di una cooperativa artigiana di un piccolo pueblo non lontano da Chichen Itza, costituitasi per contrastare – per quanto possibile – lo strapotere delle catene ‘bianche’ di souvenir. Ampia la scelta, con sombreri,oggetti in ceramica,e perfino liquori:come quello all’anice che abbiamo preso per poi, e che in Italia quest’inverno abbiamo usato soprattutto per preparare la cioccolata maya.
A parte questo, ampia scelta di tutti i generi a Merida. Sconsigliabile far acquisti in villaggio turistico, mentre a Playa del Carmen qualcosa si può trovare; ad esempio, se si cerca musica mariachi o simili, verso la fine della passeggiata c’è un negozio molto fornito. L’acquisto migliore comunque è casuale: una coperta coloratissima fatta mano e acquistata al primo piano di un palazzo in una via traversa del centro di Merida.
 
Clima
Quello che abbiamo trovato noi: ideale. Essere ai primi di dicembre in Yucatan è stato un po’ come a giugno inoltrato sul mare della nostra toscana. Quanto di meglio ci potessimo portare da casa.
 
(novembre 2004 - pubblicato su turistipercaso.it)

Sudafrica, il mondo dall'altro Capo

Questo viaggio nasce come soluzione di ripiego (e che ripiego!) rispetto ad un analogo soggiorno in Namibia. A questo è subentrato il Sudafrica non perché alla fine le attrattive di quel paese abbiano perso di intensità (anzi: ora che siamo tornati sono più vive che mai), bensì perché in questa occasione abbiamo preferito una soluzione più comoda rispetto al fly&drive, con guida a sinistra e con distanze giornaliere medie di 300 km, che per lo stesso lasso di tempo avremmo dovuto adottare in Namibia.

E ora vediamo al Sudafrica, il paese più vario che abbiamo mai visitato. Almeno finora.

Consigli pratici:
abbigliamento Giugno: vestiti a cipolla. Si entra in inverno (si fa per dire), Cape town, Johannesburg, Parco Kruger in pieno giorno: 27 gradi. Kruger allalba: 2 gradi. Utili: cappello lana, cappello cotone, 1 maglione lana, scarpe comode, abbigliamento chiaro e maniche lunghe per zone savana.

Telefono
Abbiamo utilizzato il Vodafone Passport attraverso la compagnia corrispondente Vodacom (ricerca automatica o manuale sul cellulare, appena sbarcati). In caso di telefonate frequenti, tuttavia, risultava molto conveniente luso delle carte Wordcom o simili, in tagli da 10 20 o 50 rand. Durano moltissimo, rispetto ai nostri parametri.

Cambio
Per le spese correnti avevamo fatto il cambio in dollari, poi ricambiati in Rand: superflui. Agli uffici di cambio leuro è accettato direttamente ( 1 euro = 8,45 rand in giugno 06) e gli sportelli bancomat per il prelievo sono diffusi.

Lingua
Inglese necessario e sufficiente. Salvo che siate perennemente guidati.

Viaggio
Ottimo il servizio della SAA (SouthAfrican Airways): tre voli confortevoli (andata e ritorno con appoggio Lufthansa su Francoforte da Roma), ritardi irrisori, personale accogliente, pasti buoni, buona scelta di film & entertainment a bordo.

Spostamenti
A giugno 06, un litro di benzina verde costava 6 rand, circa 70 centesimi deuro.

Cibo
Nel nostro itinerario i pasti liberi erano limitati: varia ed apprezzabile la cucina a buffet dei Protea Hotel, in particolare di quello sito nel parco Kruger dove abbiamo assaggiato impala, kudu alla griglia, facocero e coccodrillo. Negli altri abbondanza di riso, zucca dolce, pollo, spinaci (moroccos), mais; tanta e coloratissima frutta. Rinomato (sin troppo) il Magdeleine di Pretoria; tribalissimo e suggestivo il Lekotla di Joburg, in Mandela square. Vino: Jordan Blanc fumé Stellenbosch 2004. il migliore tra quelli assaggiati.

Precauzioni Malaria:
in giugno, spostandoci a nord fino alla parte meridionale del Kruger, abbiamo deciso di allinearci al 90 % del ns. gruppo: non fare la profilassi. Avevamo portato con noi il malarone, ma vista la stagione secca ed il basso livello delle acque, ci siamo convinti a non utilizzarlo. Unico accorgimento lo spray omeopatico dissuasivo per gli insetti, preparato da una rinomata erboristeria della ns.città; e il solito autan.

Sicurezza
nel nostro caso nessuna noia, ma eravamo molto spesso guidati. Liberi e tranquilli a Cape town (Waterfront e lungomare, pomeriggio fino al tramonto; waterfront dopocena; Long street, pomeriggio) Dullstrom, mattina, Graskop, pomeriggio; Johannesburg tardo pomeriggio.

Meritano di esser viste...
Cape town: il lungomare (tra Bantry Bay e Waterfront) nel pomeriggio, la table mountain di mattina (se fa bel tempo), la zona centrale (Long street) nelle ore diurne, il quartiere arabo/malese, Water front verso sera, magari per cena o dopocena.
La baia del Capo: il Capo di buona speranza, per capacitarsi che siamo allincrocio tra due oceani, e che laggiù allorizzonte cè la fine del mondo. occhio semmai ai babbuini Chacma (non fategli percepire odore di cibo); la colonia di pinguini a Simons town.. .sembrano domestici; lisola delle foche, non troppo presto la mattina (utile che sia soleggiata); il giardino botanico di Kirstenbosch, molto ricco di specie vegetali delle più varie e spettacolari.
La savana: Kruger park è vastissimo, in una giornata già resti stupefatto, se ne hai di più a disposizione probabilmente la storia prosegue. Suggestivo cenare e pernottare in un lodge allinterno o al limite del parco.
Il Mpumalanga, sconfinato, vasto e armonioso: dallo scenario rurale similbritannico (pranzo alla Farm Corn&cob, non lontano da Nellspruit) alle località montane, sperdute e placide come Dullstrom, fino al Shangana villane di Hazyview, riproduzione artefatta ma non superflua della vita tribale. Soprattutto, il Drakensberg: sorprendente per vastità di dimensioni e dorizzonte, specie lungo il Blyde river canyon. Inatteso. Dullstrom: qui il caffè più buono (lunico?) di tutto il Sudafrica (è in montagna, 2100 metric)
Pilgrims rest: lesperienza di una notte in una delle località più grigie e finte di tutta lAfrica (edifici tutti in latta stile ottocento, come allepoca della locale febbre delloro): eppure permane un forte senso di quello che fu un periodo breve ma intenso per questo paese Pretoria: vista solo dal finestrino. Sorprende la presenza pressoché esclusiva di gente di colore, nel centro della capitale.
Johannesburg. Ecco uno dei percorsi tra i forti contrasti del Sudafrica: ascesa in collina (Newtown), ridiscesa fino alle vie centrali (noi eravamo guidati, oppure in cab taxi), passeggiata nel mall di Sandton che circondano Mandela Square. Robben Island, casa di Mandela,
Chiesa e Petersen memorial a Soweto: tappe obbligate, se volete andare indietro nella storia recente.
Le township (nel nostro caso Soweto a Joburg, e Khayelitsha a Cape town, guidati e.. scortati fino allinterno di due Primary school): se volete andare a fondo della storia... in corso.

Lo sport:
il rugby giocato al sabato mattina in ogni scuola, il calcio in ogni angolo in attesa del 2010, il cricket dagli anziani in tenuta bianca nel weekendc.

Per farsi unidea prima (o durante)
Guide: il numero monografico sul Sudafrica della rivista Traveller (febbraio 2006) è stato un ottimo complemento alle informazioni di Edo e Elena, le due guide italosudafricane che si sono alternate con il ns. gruppo. Film: Un mondo a parte; Cape of good heart; soprattutto Tsotsi, Oscar 2006; Giornali: Cape argus, Sunday Star ma anche Sawubona (hose organ della SAF). E tutto quel che trovate e riuscite a leggere..

In due parole.. Ci riproveremo in futuro: per chi vuol farlo subito, consigliamo vivamente di prendere contatto con il tour operator namibiano Latitude 24 (latitude24@libero.it), ed in particolare con Sabrina, la cui preparazione e disponibilità è risultata pari al grande fascino delle proposte di itinerario che ci ha sottoposto. Pur avendo una certa reticenza per i viaggi organizzati non siamo rimasti per niente delusi. Si è trattato infatti di un viaggio che unisce il piacere della scoperta dei luoghi a quello dei rapporti con la popolazione locale. Ho ancora nel cuore il calore dei bambini delle scuole che abbiamo visitato, il sorriso di quei bambini a cui la vita non sempre sorride e che con un piccolo contributo abbiamo potuto aiutare. I dettagli, comunque, ve li racconteremo un altro giorno. Senza fretta.

(gugno 2006 - pubblicato su turistiper

La voce del muezzin

La straordinarietà della Giordania dunque, se c'è, è legata al fatto che riesce a metterti al cospetto di luoghi sacri per tre religioni distinte, nell'arco di pochi giorni o centinaia di chilometri; senza farti percepire il pericolo di questa distanze ravvicinate, come probabilmente invece succede nella vicina Israele. Alla fede Cristiana ti senti vicino come non mai a Betania, piuttosto che dall'altura del monte Nebo; A quella ebraica resti a distanza, ma ne percepisci la presenza soprattutto a Gadara, alla stessa Betania osservando l'altopiano di Gerusalemme; sul mar morto. La religione islamica ti sfiora continuamente, anche ti rimane sempre un po' imperscrutabile, se non altro per la difficoltà di accesso ai templi, ovvero alle moschee.
C'è un momento, prima o poi tuttavia, che la partecipazione a questo credo si manifesta vicino a te in piena suggestione. A noi è successo a Petra, all'interno di un templio, una caverna buia mentre tutto fuori era luce; la nostra guida ha raccolto la voce, ha intonato per alcuni lunghissimi secondi la melodia tipica del muezzin. Siamo rimasti senza parole. Così come all'alba dell'ultima notte ad Amman, alloggiati in un hotel di rimpetto ad una moschea: da quest'ultima ha iniziato a risuonare quel richiamo. E' stato uno dei risvegli più insoliti di sempre. Ma certo, anche dei più suggestivi.  


(novembre 2007)

Niente come il deserto

 Il deserto? Mi piace perché è pulito”. Pare che questa sia stata una celebre citazione di Lawrence d'Arabia. Forse non l'ha detta veramente, ma l'affermazione – per chi è stato nel Wadi Rum, in Giordania – appare assolutamente verosimile. E non solo in senso letterale. Mentre ti muovi nel deserto, mentre gli occhi osservano il nulla intorno tranne sabbia e rocce, parallelamente è all'interno che avverti la pulizia: le mille, piccole cartacce mentali che ti affollano quotidianamente dentro sembrano sparire, ed il silenzio è la miglior colonna sonora per l'operazione. L'esperienza che posso raccontare non spazia oltre qualche ora di un giorno assolato – ma non torrido – di fine novembre. Il Wadi Rum l'ho pressoché transitato, tra la sorgente del Lawrence, le grandi dune, la gola con le iscrizioni rupestri e le immense coste rocciose che appaiono giganteschi profiterol cristallizzati; paradossalmente, è proprio scendendo dalla più alta delle onde di sabbia che ho ricevuto una telefonata cellulare, brusco richiamo alla quotidianità. Per il resto, tuttavia, il silenzio è stato quasi una consegna. Sul retro del fuoristrada delegato a trasportarci, in special modo sulla via del ritorno verso il villaggio beduino, osservare quel mondo inospitale, suggestivo e normalmente lontano fungeva come da grimaldello alle parole. Ad Aqaba un residente ci ha raccontato che più di una volta, durante l'anno, sale fin quassù per passare qualche notte con amici beduini, sotto il solo cielo stellato che - pare - visto da qui non abbia pari. Non è troppo difficile credergli sulla parola. 

(novembre 2007) 
(novembre 2007)

Velarsi in Giordania

 In tempi in cui la nazione islamica più laica (la Turchia) ammette l'utilizzo del velo per le studentesse in università, è fisiologico guardare con rinnovata preoccupazione alla prospettiva d'espansione di una cultura che, nel suo passato anche recente, è arrivata a noi spesso con le immagini di donne vessate e segregate, quando non di peggio.
Proprio perché le esperienze dirette sono generalmente le migliori, va detto però che la popolazione femminile osservata in Giordania appariva tutt'altro che vittima di imposizioni o fronteggiamenti. Più e più volte, nell'arco di una settimana, abbiamo visto donne velate ed altre vestite in modo “occidentale” condividere i sedili di un mezzo pubblico o il divano di un pub, darsi la mano nella fila di una classe scolastica, o affollare una accanto all'altra un negozio di spezie. In nessun caso sembravano fronteggiarsi, all'opposto - specie quelle in età scolare, com'è normale – erano coinvolte in atteggiamenti amichevoli o spensierati; nessuna “barriera” insomma pareva porsi tra loro in funzione del velo, semplicemente un diverso modo di vestirsi. Un'impressione apparsa particolarmente viva osservando le scolaresche a Madaba, o in particolare le allieve di una scuola turistica così entusiaste e gentili nel porci un questionario all'ingresso nel deserto di Wadi Rum.
L'approfondimento, tuttavia, si è fermato qua: non abbiamo insomma la prova provata che chi indossa il copricapo lo faccia effettivamente per scelta, e non per imposizione. Certo, nella mentalità giordana persiste una certa subalternità della donna al ruolo dell'uomo, che infatti può scegliere di avere ancora fino a 4 mogli (“ma solo per riparare alle eventuali scappatelle”. Diceva la nostra guida Ibraim), al contrario di quanto può fare la donna. Tuttavia la popolazione femminile sembrava tutt'altro che circondata da un'atmosfera cupa. E, col beneficio d'inventario, ci piace confidare che, almeno in molti casi, la scelta del velo sia uno “star meglio con sé stesse” cui eventualmente poter fare a meno, da domani per sempre o solo in certi intimi (e intensissimi) momenti. 


(novembre 2007)

Sospesi nell'occhio. Del ciclone

Ho letto una volta che stare in Giordania sembra un po' come trovarsi nell'occhio di un ciclone; tutto intorno è tempesta, e solo lì le cose appaiono quiete. Vista alla fine del 2007, l'espressione appariva calzante: tra Amman e Jerash, tra Aqaba e Madaba nessuna tensione latente, ma una diffusa consapevolezza di quello che è avvenuto, avviene o potrebbe avvenire nel resto del Medioriente. Ovvero, tutto intorno.


Questa sensazione la si avverte potente a Gadara (Um Qeis) rimirando dall'alto il lago di tiberiade o, sulla destra, l'altopiano del Golan. Immaginarsi truppe più o meno sparute in agguato, su quei pendii piuttosto aridi, non è esercizio troppo difficile per la mente; la facilita anche il silenzio, pressoché ininterrotto, che contraddistingue la visita in una mattina di lunedì sotto il sole.


Già, il silenzio. Protagonista essenziale del transito a Betania. Mentre il mezzo di trasporto si avvicina lentamente al luogo battesimale di Gesù Cristo, è davvero facile convincersi di andare incontro alla storia. L'orizzonte è ampio, lungo, affusolato nella foschia; ti dicono che là, oltre quella collina e quella caliggine c'è Gerusalemme. Non stenti a crederlo, anche perché sulla destra intravedi, quella sì nitida, la città blindata di Gerico. Quando scendi dal mezzo già distingue reticolati e torrette immediatamente al di là del fiume Giordano: confine con Israele, discreto ma solenne.


Cammini un centinaio di metri in mezzo alla radura, non fitta peraltro. D'improvviso vedi 3 o 4 operai al lavoro intorno ad una fossa incurvata dove resta depositata un po' d'acqua. Eccolo, il luogo del battesimo. Il raccoglimento è inevitabile, anche perchè c'è chi ti ha chiesto di assumerlo, una volta qui. Fa buon gioco il silenzio, quello di cui sopra. E sotto, invece, c'è la storia dell'uomo; di un uomo, in particolare, la storia più grande mai udita ad oggi. Sembra ieri, o forse no, dal momento che immagini come quel luogo dovesse essere ben più affollato all'epoca; epperò ci sono luoghi in cui ti pare che le vicende del pianeta siano sospese, è questo è sicuramente uno di quelli.


Qualche giorno più tardi, transitati per Amman, come sul deserto o addirittura per Aqaba, arrivi a supporre che la Giordania sia un po' l'attuale depositaria di questo stato di sospensione. Difronte ad Aqaba vedi Eilat, tanto vicina da sembrare la medesima città. Eppure quella è altra cosa, è Israele: cieli controllati, come cantò la Mannoia; transiti centellinati, edifici blindati, diffidenze diffuse. Del vicino Iraq hai purtroppo sentito urlare a lungo, negli ultimi anni; figurarsi della Palestina, striscia di Gaza, Ebron; tutte località ad un tiro di schioppo da questa nazione. La quale, invece, sembra star lì apposta, quasi in punta di piedi, a testimoniare sotto voce: si può convivere con meno terrore, anche se professando credo diversi. Diversi, nei dintorni, neppur l'ascoltano, e forse non è poco che la lascino stare. Almeno finché non tirerà più fuori dalla sua terra la voce. O magari, il petrolio che oggi non ha. 




(novembre 2007)

Rifiugio Petra, Giordania

Ci sono attimi stupendi, che a volte hai la fortuna di vivere, in alta montagna. Sono quegli attimi in cui ti ritrovi da solo, lassù in alto, o al massimo in compagnia di poche persone. Tutto intorno ti circonda il cielo, la roccia e tanta neve; nessun rumore interferisce a colpo d'orecchio, salvo forse il fruscìo di qualche animale in lontananza. In quei momenti, quella inusuale capacità di concentrazione che ti è data dalla quiete ti costringe a considerare di quanta forza, nonché bellezza, sia capace la natura. E gli sei grato, per poterne essere partecipe, almeno per qualche attimo di serenità pura.


Non avrei mai pensato di poter rivivere la stessa sensazione in un ambiente diverso, molto più prossimo all'Equatore, e soprattutto forgiato dall'uomo non meno che dalla natura. E' quello che invece mi è successo a Petra, una mattina di novembre, baciata dal sole. Un giorno feriale, in periodo di bassa stagione, tale da non farci percepire mai la sensazione di affollamento turistico. Un giorno che ti ha sorpreso sin dal primo sguardo fuori finestra, rapito da una cordigliera di rocce ocra, apparentemente a portata di mano fuori dall'hotel. E che ti ha risucchiato lentamente verso la meraviglia, scendendo a passo lento lungo quell'incredibile corridoio-gola chiamato siq, fino al fulgore non disatteso del “tesoro”, il primo spettacolare tempio scavato nella roccia cui ci si imbatte lungo il percorso.


A quel punto sono già diverse decine di minuti che ti sorprendi a constatare quanto una meta fortemente turistica come quella sia ampiamente meritoria di tale fama, anzi neppure troppo estesa dalle nostre parti, a giudicare anche dalle scarse presenze italiche (molti più numerosi francesi e spagnoli). L'occhio non finisce di sorprendersi, e peraltro ignora che ancora per ore dovrà lavorare di stupore. Nel frattempo Ibrahim, la nostra guida giordana, ci conduce verso l'anfiteatro, letteralmente scavato nella roccia alla pari di quasi tutto il resto. Il tempo di scherzare con una delle tante giovanissime ambulanti, che dice di voler andare a Milano da grande (“a fare che?”, l'apostrofo scherzosamente) e poi io e il mio gruppo rimaniamo pressoché soli. Sette, nove persone al massimo, momentaneamente isolate in questa gola del mondo e della storia, dove in cielo il sole è alto, all'orecchio non perviene rumore, e tutto intorno è sbalordimento allo stato puro per quanto gli uomini (i Nabatei) sono riusciti a fare, interagendo con quella materia atipica quanto al fine mirabile che è la pietra arenaria. Contro ogni mia attesa, il mio pensiero corre alle dolomiti, alle vette, ai vertici. Per un attimo ti illudi addirittura che siano dietro l'angolo; sono invece lontanissime tra loro, come gli attimi eterni che a volte costellano la vita di un uomo, degli uomini e della natura in relazione con questi. Eterni e lontanissimi; cionostante, impossibili da non cercare.


(novembre 2007)

martedì 10 gennaio 2012

VALENCIA, A PETTI NUDI NEL PARCO

Arrivi all'aeroporto di Valencia e, per trasferirti in città, in 10 minuti sali su un vagone di metropolitana luminoso e pulito. Arrivi a quello di Pisa, al ritorno, e dopo mezz'ora d'attesa eccoti un avanzo di convoglio ferroviario olezzo, con poltrone letteralmente mangiate.
Sintesi come queste basterebbero per varie cose: per rendere il senso di cinque giorni a Valencia, per simboleggiare l'aria diversa che si respira oggi passando dall'Italia alla Spagna. Basterebbe, e sarebbe sin troppo facile: è il caso allora di menzionare anche le falle, ché ce ne sono, di una tra le città-simbolo dell'attuale dinamismo spagnolo. “Bologna per grandezza, Napoli per mentalità” ce l'ha definita detto un bagnino ligure, ex odontotecnico, trapiantato da 5 anni sulla Malvarrosa, lunga piatta e larga spiaggia cittadina. Si riferiva in parte all'incuria per la “cosa pubblica” che persiste a questa latitudine: ne sono prova gli avanzi di picnic consumati spesso sul bagnasciuga, con tanto di tavolino; o addirittura i tampax che galleggiano poco in là dalla riva.
E forse pensava, il bagnino, anche a certe manie di grandezza che non risparmiano politici e imprenditori locali, menefreghisti delle ragioni di un popolino che abita un quartiere pur storico (il Cabanyal, nato come villaggio di pescatori, oggi curiosa accozzaglia di casine a volte kitch) pur di realizzare la grande opera di turno, ovvero il prolungamento a mare delle avenidas che percorrono la città. La prossima di una serie, quanto a grandi opere, capitanate dalla “città delle arti e delle scienze”, vero trionfo di un profeta in patria (l'architetto Calatrava), vero (primo) acuto di notorietà contemporanea per la città. Una meraviglia del mondo da terzo millennio, che fa storcere la bocca a Marc, 36enne insegnante (“è costata tre volte le previsioni, che già erano alte. Con quei soldi si poteva far di tutto, dalla sanità ai servizi sociali”) e con lui a tanti valenciani, ma che certo ha dato il via ad una fase di sviluppo cittadino che ancora oggi sembra di là dal fermarsi, nonostante il “freno” immobiliare che colpisce tutta la Spagna.
Un acuto non effimero, in quanto non isolato: sia perché quanto a 'notizie', la città continua a dargli seguito (2007, America's cup; 2008, Gp di formula 1; oltre alle Biennali di cultura, dal 2001), ma soprattutto perché quella zona 'megalomane' della città è in realtà anche il culmine di un'area di certo singolare, frutto di una scelta controcorrente e, a veder oggi, lungimirante. La zona è il Turia, ovvero i 15 km di ex-letto di un fiume oggi trasformato in parco; la scelta, fu appunto quella (1957) di deviare l'acqua fuori città, per evitare il bis dell'alluvione appena avvenuto. Ne è uscito fuori un singolare “cuore in lunghezza” della città: verde, storico (i ponti sopravvissuti al cambio), estroso (i nuovi ponti, tra cui – inevitabile – quello di Calatrava) e soprattutto vivo: di gente che lo corre, lo cammina, lo pattina o lo passeggia con il cane, a tutte le ore del giorno e della notte. Chi si reca a Valencia per “sentito dire”, senza un reale approfondimento a monte sulla sua storia, si trova di fronte ad un inaspettato trait d'union tra il vecchio (il centro storico, notevole soprattutto per la paella di stili artistici che si rincorrono di calle in calle, o anche su uno stesso edificio) e il nuovo, che è appunto la Città della Arti ma anche il porto, il mare, l'oasi-laguna dell'Albufera.
Lungo il letto del Turia si respira una bell'aria, e non solo per i gelsomini e gli altri fiori che ancora a fine agosto attizzano le narici: più che i polmoni respira la mente, o almeno così ci è parso di sentire. C'è spesso gente che si bacia, e nessuno fa caso se il loro sesso è diverso o meno; e sulla spiaggia cittadina prende il sole in topless una donna su tre, comprese mamme e nonne. Per alcuni, come il bagnino ligure, è mancanza di decoro. Per altri è mancanza di ipocrisia: quella stessa che in Italia salva bikini e apparenze. E affossa le sostanze.


(agosto 2008)

ALLOGGI, TAXI E BRIVIDI A RODI

Diciamo la verità. Il primo impatto con l'Hotel Isole, ed in particolare con la camera assegnataci, non è stato dei migliori. Dimensioni ristrette, gestori con sguardo furbesco-distratto, la cassaforte d'armadio che non si apre dopo il tentativo-prova.
Per fortuna è stata solo una prima impressione, e dopo il primo 'ouzo' offertomi da Louisa, la terza sera, il sorriso ha dissipato i timori di dover pagare un fabbro (per la cassaforte) e aperto la strada a momento di spontanea mondanità, nel senso bello del termine. A parte gli efficacissimi consigli di soggiorno (su tutti l'ordine con cui andare al mare e sull'acropoli a Lindos: evitare i gruppi è stato geniale), o l'entusiastica intesa con Louisa al secondo aperitivo (“tra pochi minuti arrivo”, “Massimo, hai ragione tu!!”), l'apice del soggiorno in quella barca incastonata dentro Rodi-città è stato il venerdì sera: al banco bar c'erano cinque nazionalità, quattro diverse lingue, quattro accenti italiani, un meltin pot fatto moussaka in maniera splendida, divertente e ad un certo punto apparentemente senza fine. Il tizio di Gaeta che scherzava con Guido di mozzarelle e finte scorte della Finanza a Fiumicino; la vicina di casa dei gestori, irlandese, che lodava il mio saltellare da una lingua all'altra; Louisa e il suo elisir di lunga vita, ovvero la “bicicletta” del friulano guido; la genovese reporter di design greco che familiarizzava in un baleno con Luisa, il francese capitano-skipper-ex controllore di volo (di lei compagno) che mi coinvolgeva ina conversazione a più lingue, ed a svariate sensazioni, sulla “puissance” del mare, sull'assolutezza del mare, dell'alta montagna e del deserto, sulla magia del porto di Panoramis a Symi (“la chiesa, una barca, c'est tout”!), sulle superfluità di tante modernità (“non avevo il refrigeratore l'anno che son stato in Algeria, ma andava bene lo stesso”). E' stato difficile, bellissimo e amaro smettere, consapevoli in quell'istante stesso che momenti come quelli non si preparano, non si 'comprano', forse non si ripetono. Si vivono e basta.

Al capovolgimento di fronte, del resto, ci siamo allenati. 'testati' anche la mattina del mercoledì, quando il previsto autonoleggio via ufficio turistico di Rodi è saltato all'ultimo momento, dopo il 'cambio di carte' (ovvero di macchina) del noleggiatore. Di lì a mezz'ora, sotto uno tra i più caldi soli della settimana, ci sembravamo persi, e con noi la 'scaletta ideale' di quello e dei giorni seguenti. Ci voleva il signor George, proprietario de Rent a car Delphi, e la provvidenziale Chevrolet Matiz che a suon di proroghe terreno fino all'aeroporto di ritorno. Alle undici circa una mattinata compromessa ha ripreso vigore, per assumere di lì a poco gli splendidi colori delle farfalle tigre nell'omonima valle, quelli della sua suggestiva sommità con vista turca, e poi quelli della selvaggia costa ovest di Rodi. Percorsa, non senza momenti di deserta perplessità, fino a Monolithos, ed alla sua piccola spiaggetta. Fosse stato per questa, probabilmente non ci saremmo spinti fin lì: ma a posteriori, la vista della rocca in faccia ad un imminente tramonto, è fotogramma di rara bellezza. Al pari del placido orizzonte osservato dal piazzale antistante l'antico borgo di Kamiros.

Due parole sulle spiagge non menzionate. Kalithea è stato l'esordio, quella più in sordina (se non altro per le dimensioni) a posteriori, ma adatta ad un gradevole debutto. A Tsampicka, specie l'ultimo giorno, con gli occhialini e nessuno intorno a momenti mi è parso davvero d'essere in piscina. Arrivati ad Antonhy Quinn, tenuto conto del caldo, credevo che non saremmo rimasti più di una mattinata; è stata invece dura andar via anche alle sei passate, complici acqua inamovibile e trasparente, fondali appassionanti e sole calante. Per San Paolo, come prologo della visita a Lindos, non trovo le parole.

Nel centro di Rodi ho trovato un'architettura straordinariamente inattesa. Dopo Siena e Toledo, mi è apparsa come la città contemporanea più medievale. L'adozione da parte dell'Unesco è meritata in pieno, ed anzi a Rodi l'uniformità del disegno architettonico (complice probabilmente qualche restyling ben fatto) è più estesa di quella senese. Onore agli italiani che, restaurandone il palazzo del gran Maestro nel '29, in questo caso hanno lasciato una buona impronta.

A Lindos, ed in particolare sulla sommità dell'Acropoli, ho ritrovato l'antica Grecia. Giunti a ciò che resta del tempio di Atena, ho recuperato la straordinaria sensazione di essere nella storia percepita 25 anni prima, in particolare a Micene. Ed ho ripensato ad Alessandra, la ragazza di Tolmezzo conosciuta a metà anni '80 sul vagone letto per Vienna (dove andava con sua nonna), ed al suo “senso della storia”, a tutt'oggi mai rinvenuto così chiaro in altra persona.
Complice la straordinaria vista d'intorno, l'ora del vespro, il vento caldo e la presenza mitigata di persone intorno, lassù abbiamo trascorso momenti di favola. Andar via da quelle colonne, quella vista sul paese e sulla spiaggia di San Paolo, su quel mare piatto è stata un'emozione forte. Condivisa con lentezza, scalino dopo scalino, a riscendere verso il borgo.

In apertura ho scritto del sorriso dei greci. E' d'obbligo dar conto anche della grazia, spesso in forma di pura e semplice bellezza, delle donne greche. Spesso molto simili alle migliori italiane, tendenzialmente meno sofisticate, ma nondimeno non confinabili dietro un unico clichè: more, bionde, basse, alte (come quelle d'esordio, ovvero le hostess del volo Aegean: davvero un benvenuto).

L'insalata greca era la tappa culinaria più attesa, e non ha tradito le aspettative. Rivelazione del genere è stata l'insalata di frutta con yogurt, miele e noci, al pari dello tzatziki, gustato con l'immancabile pane al sesamo. Difficile descrivere le sensazioni evocate dai loukumades (le frittelle di miele), e dai baklava (credo che così si chiamino i dolcetti con i 'capellini' di miele), soprattutto quando mangiato alla pasticceria della stazione degli autobus, con il sollievo da rientro compiuto. Impegnativo il souvlaki, carne e pastina piccola, fatta fuori da Kostas; eccellente tutto quanto provato al Langania (spiedini di pesce locale, pesciolini fritti, dolmades), la feta fritta (saganaki), ed il calamaro ripieno di formaggio da Pizanias. Provato anche il kebab pita (spiedini guarniti con patate fritte e salsa), degli spizzichi di torta salata ripiena ai porri. Sul vino ci siamo sempre arenati al bianco secco della casa, servito nel''agognato cartucio; buona la birra Mythos, apprezzato l'aperitivo (o digestivo) ouzo, ed in occasione anche il meditativo Metaxa. Tutti si cimentano nella preparazione dell'espresso, ma l'unico apprezzabile è stato quelle servito nel bar dell'area verde di Papagou. Diffusissimo il frappe, caffè shekerato con latte.


Alcuni prezzi-chiave: ombrellone con 2 sdraio 8 euro (docce in spiaggia gratis, calde e frequenti), acqua minerale ½ lt. 050 euro, cene congrue al ristorante 14-19 euro a persona, benzina da 1,089 al lt in su. Bagni pubblici quasi sempre più che dignitosi. Raccolta differenziata asssente, pannelli solari sul 90 % degli edifici.

La cosa più bella è stata prenderla in braccio, ieri sera, per scavalcare le rovine della cattedrale, nella parte bassa del centro di Rodi. Era un fagottino, tornata a nuova vita, fuggita dai cattivi pensieri,dalle diagnosi e dalle stanze chiuse di una settimana prima. Era lei. E' lei. Quella per sempre.


(giugno 2009)

TRACCE D'ITALIA A RODI ANTICA

Ancora l'ultima sera di sette, trascorse a Rodi, ci ritroviamo a scoprire una parte del magico centro medievale che non avevamo ancora percorsa. Nel labirinto in cui con piacere ci perdiamo, ci imbattiamo ad un certo punto in una cordiale coppia mista, che ci apostrofa semplicemente con un “calispera” al nostro passaggi un po' smarrito davanti al loro negozio di monili. Ci fermiamo a parlare: lui barese, lei greca, dopo una vita in puglia hanno scelto da pochi mesi di trasferirsi nella palazzina ereditata dalla donna proprio in questa strada, dando il via ad una pensione da gustare con lentezza, sole e levità. La conversazione prende rapidamente il volo, avviata dal dibattito su dove trovare un “cartucio” da acquistare. Veniamo a sapere che i loro figli sono in Italia, uno è un dirigente del gruppo Intimissimi-Tezenis di 32 anni, che già è tentato di mollar tutte le frenesie italiane e spostarsi sull'isola. La nostra determinazione nel cercare il bricco da vino gli suggerisce l'idea di tenerlo in vendita in negozio: ci diamo appuntamento tra un anno, per vedere com'è andata a finire.

L'ultima cena rodiana approda dopo il labirinto all'ancora di salvezza: l'apprezzato Laganis del giorno prima, nonostante i 10 minuti scarsi da fare a piedi per raggiungerlo. E' lì che torna a servirci il suo sorriso, prima delle ottime pietanze, Lucianna: “doppia enne”, ci specifcia in un italiano non perfetto ma smagliante, spiegandoci come anche la sua famiglia sia per metà italiana, e per l'esattezza brindisina (cognome Zuccaro) per parte di madre. I suoi occhi sognano di visitar l'Italia, magari andando presto a trovare la sorella che sta a Milano. Lucianna però fa due lavori, commessa di giorno e cameriera nell'osteria di casa alla sera. Ma il futuro dovrà esaudire i suoi desideri, se non altro per render merito dei suoi 'buoni uffici' per farci venire in possesso del cartucio da vino, così da portarcelo come volevamo in Italia.

Non ci avevo pensato sul momento, ma un'altra cosa bella del soggiorno a Rodi è che sulle spiagge non abbiamo mai trovato né ressa, tantomeno persone moleste. Al contrario molti bimbi anche divertenti (“Leo”, a Quinn bay) e coppie. Da menzionare la coppia connazionale vicina di ombrello a Quinn bay, per la bellissima pronuncia d'italiano sfoggiata da lei (ferrarese, I suppose) e la coppia greca incontrata 3 volte in un giorno: in spiaggia a San Paolo con scatto reciproco di foto di coppia, sulla mitologica cima dell'Acropoli di Lindos (con replica) e lungo Socrates la sera, a Rodi centro.
(giugno 2009)

TSAMPICKA DAY

 Stegna è un piccolo paesino di pescatori, sulla costa est di Rodi, poco prima del bivio per Tsampicka. Un pugno di case sul mare, dilatato in modo discreto più a sud, da qualche albergo e seconda casa. Nel “pugno” spiccano un paio di appartamenti in bianco con veranda a mare, ed a fianco una curiosa chiesina (in bianco e azzurro anch'essa naturalmente) poco più grande di un box doccia.
La breve passeggiata di metà mattina di un sabato di giugno, quando ti aspetti le spiagge affollate e non lo sono affatto, ci fa scoprire un bel bar open space lungo strada, ritrovo al mattino di ometti del paese ma gestito da giovani del posto che, al nostro arrivo, non esitano a piazzare un po' di musica house negli altoparlanti. Dietro il banco, in particolare, c'è una ragazza che assomiglia ad Alexia, tutta intenta a pulir bicchieri e brocche, probabilmente reduci dalla sera prima.
Poco prima, incrociamo Tsampicka: è una bella donna bionda, madre probabile di alcuni bimbetti che giocano vicino in strada, e 'commessa' di una bancarella di camice e abiti estivi. Capiamo poco dopo che la bancarlla è esposta di rimpetto al negozio, dove ci conduce a compiere nel giro di poco acquisti che fin lì non avevamo preventivato. Dopo aver trattato un po' sul prezzo, Tsampicka ci rivela il suo nome, e alla sorpresa per l'assonanza con il nome della vicina spiaggia, ci spiega del Santuario e del voto fatto da sua madre, prima che ella si decidesse a nascere.
La stessa sorpresa si ripeterà di lì a qualche ora, nell'ampia omonima spiaggia che raggiungiamo per la seconda volta. Dopo il successo di tre giorni prima, lo spuntino di metà giornata lo affidiamo ancora alla Savvas Family: quasi una famiglia da fiction, stampata in posa sorridente sui cartelli che circondano lo stabilimento balneare, ma che è in realtà vera, sparsa tra cucina-bar-servizio ai tavoli, vivace e chiassosa quanto basta per risultar simpatica. Il loro 'avamposto' verso il nostro tavolo è un ragazzo in età scolare, evidentemente dedito alle attività di casa durante le vacanze. Dopo i consensi già tributati, ordiniamo tzatziki, insalata greca e soprattutto insalata di frutta, fantastica con yogurt greco e miele in cima. A fine spuntino, sulle soglie di una meritata mancia (nell'attesa del conto c'era pure stato offerto anguria e “snap”) chiediamo il nome al giovane cameriere: “Tsampickos”.
(giugno 2009)

SUL TRENO ROMA-MAHDIA

 Assen è l'ultimo degli incontri di Grecia, in ordine di tempo; paradossalmente, è forse il primo in ordine di incisività, ma lascio sospeso il giudizio definitivo, anche per rispetto degli altri. Un incontro singolare, intanto perché avviene quando siamo già in Italia, ovvero quando già abbiamo potuto riprendere coscienza delle preoccupanti particolarità del nostro paese attuale. Assen lo incontriamo sul treno che da Fiumicino porta verso Roma; poche decine di metri prima, al termine di un tapis roulant, un cartello in bella vista avvisa che “da quel punto in poi i servizi offerti non sono più di competenza di Aeroporti di Roma”, ovvero se avrete qualcosa da ridire, non prendetevela con noi; bel segnale di coesione, per un visitatore che ha appena messo piede in Italia. Che dire poi dei convogli che Trenitalia sceglie per condurre cittadini e visitatori fino alla città eterna? Vagoni graffitati, sudici più dentro che fuori, stipati. Niente di nuovo rispetto ad un anno fa, aeroporto di Pisa. O che dire, poi, dei bagni pubblici dell'autostazione Tiburtina? E' vivo il ricordo dei tanti toilet di Rodi, aperti al pubblico a costo zero e pulizia sempre decente: qui invece si chiedono addirittura 50 centesimi per accedere a cessi strutturalmente rivoltanti, oltre che privi di servizi.
Questo, dunque, è il contesto in cui incontriamo Assen, primo interlocutore di ritorno in Patria. Tunisino, tre anni alla pensione, da 30 anni in Italia, carnagione tipica magrebina, fisico da fantino, eccellente proprietà di linguaggio, grande lucidità, come i due piccoli grandi occhi scuri. E' di ritorno da Mahdia, sua città natale, verso Rimini, la città che l'ha accolto, gli ha trovato un lavoro da pescatore, gli ha contaminato la parlata con curiosi accenti romagnoli sparsi qua e là nel discorso. Torna “per lasciare le impronte digitali”, l'indomani, probabilmente a rinnovare il suo eterno permesso di soggiorno. Poi volerà di nuovo in Tunisia; fino a settembre, quando riprenderà il lavoro alla cooperativa pescatori riminese. Per tutto l'inverno sarà in mare tre giorni alla settimana, a volte 72 ore di fila, a pesca strascico di sogliole, calamari, pesce azzurro, su un peschereccio da condividere con due colleghi per volta. “Usciamo in genere fino a 40 miglia, ma a volte andiamo in acque croate, sì daì, a fregare un po'..” racconta, e pare l'unica trasgressione che si concede. Lo sguardo di Assen non tradisce emozioni, a stento immagini la soddisfazione di essersi costruito una vita rispettabile in Italia, anche se in realtà lui l'aveva scelta per risparmiare a sufficienza per andare in Canada, a finire gli studi di economia e commercio. Meno faticoso è dedurne la preoccupazione per come il mondo è cambiato nel frattempo. Anche perché lo dice esplicitamente: “negli anni '80 si stava bene qua, oramai non più. Devi guardarti le spalle, troppe teste matte, troppi extracomunitari sbandati. Troppi che son venuti in Italia credendo alle illusioni, troppi a cui è stato permesso di arrivare senza garanzie su un alloggio, su una possibilità di vita dignitosa. I problemi credo siano nati con la legge Martelli. Oggi arrivano questi giovani, anche dalla Tunisia, si ritrovano con mille euro quando va bene, e tutto da pagarsi, dall'alloggio al vitto, alla irrinunciabili sigarette. Non era meglio restare a casa, a prendere anche solo 400 euro”?
Assen è preoccupato anche perché “un tempo chi sbagliava, sul lavoro come nella società, veniva sanzionato. Oggi non succede quasi più. Il foglio di via è un paraocchi, uno che è scacciato da Rimini lo ritrovi dopo qualche giorno a far danno a Padova. In Tunisia c'è un governo duro, ma l'unica cosa che non ci manca è la possibilità di girare dovunque, senza temere che qualcuno ti rubi o ti faccia qualcosa. In Italia non è più così”.
La conversazione ha preso una piega cupa. Proviamo a ravvivarla, notando che dall'America sembra giungere qualche segnale di ripresa. “Non possiamo aspettarci che l'America ci ritiri sù, abbiamo problemi nostri” ribatte. Facciamo notare che il periodo critico mondiale è cominciato proprio laggiù, e a questo punto Assen concorda. E punta il calendario. “a gennaio del prossimo anno, se l'America avrà ripreso un 30 per cento di quanto aveva perso, possiamo sperare di risalire anche noi. Altrimenti sarà brutta”.
Il sudicio “treno ad alta frequentazione” da Fiumicino ha raggiunto Tiburtina. Scendiamo e salutiamo il tunisino che non lo dice, ma probabilmente vota Lega: “ricordatevi di venire in Tunisia, prima o poi. Non spendi più di 400 euro a settimana, tutto compreso. Molto meno che in Grecia”.
(giugno 2009)

RODI, I SORRISI DI LAVARONE

 La risorsa più grande di Rodi oggi, e forse di tutta la Grecia, non è il mare; né le giornate di bello stabile, o la assortita cucina. L'arma in più è l'efficacia del sorriso, la dote forse innata ed irripetibile con cui il commerciante, il tassista o il semplice passante riesce a convincerti delle sue tesi, in tono spontaneo e discreto, senza che tu lo viva come una forzatura.

Succede così anche in un luogo ameno quanto splendido, a metà di un giorno feriale di metà giugno. E' alla cima del percorso di visita alla Valle delle Farfalle che si staglia una piccola chiesa ortodossa, pareti bianche all'esterno, come tante in tutto il paese. Senonché d'intorno alla chiesa c'è una piazzetta in miniatura: su di un lato, 3 o 4 tavolini offrono riparo all'ombra di alcuni alberi, e soprattutto offrono lo sguardo sul mare, e su una costa turca che, di rimpetto, sembra proprio a portata di mano. Di fianco nel piazzale, un caseggiato di due stanze: nella prima, un anziano signore popola solitario un salotto, guardando la televisione; nell'altra, tre donne si agitano tra fornelli. Due di loro friggono triglie o frittelle di miele a mandorle, l'altra si interfaccia ai turisti, ovvero a gente in cerca di un ristoro non vistoso ma efficace, come si confa alla situazione. Negli occhi della donna, neri come i corti capelli, scintilla la determinazione di che sa di dover tener testa a visitatori d'ogni tipo e provenienza per almeno 4 mesi filati; nella sua bocca la disarmante capacità di sfoderare la parola giusta nell'idioma giusto per entrare in sintonia con lo straniero di turno; e soprattutto un sorriso che, appena accennato, rapisce più di ogni espressione a trentadue denti. Ti affacci per chiedere un semplice succo d'arancia, e nel giro di pochi secondi il tuo diniego ad assaggiare qualcosa di appena uscito dai fornelli cede, di fronte ai colpi di graziosa accoglienza di una donna pur un po' in là con gli anni, sedere più grosso del dovuto per qualche misura, andatura a passettini corti. Di lì a pochi minuti ti ritrovi a contemplare contemporaneamente la straordinarietà di quel luogo di confine, dove l'occhio riesce a cogliere in uno sguardo solo due terre che, d'insieme o contrapposte, nei secoli hanno messo in scena vicende basilari per l'umanità. Pensi anche a quante esistenze di uomini e donne ogni giorno si portano avanti in questo angolo di mondo, senza altre ambizioni di conquista se non quella di una dignitosa esistenza, turista dopo turista, o pesca dopo pesca, in grazia di salute. Pensi allora a quanto distano da tutto ciò le quotidiane fisime del tuo habitat, di quell'Occidente che si illude di far da battistrada al futuro. Poco prima hai mandato via cellulare un messaggio ad un collega: “saluti dalla valle delle farfalle”. Qui siamo nella valle delle lacrime, ti ha risposto: ti guardi intorno, spegni il cellulare, assapori un'altra frittella di mandorle. Oggi, in questo preciso istante, sei davvero in vacanza.
(giugno 2009)

Echi di pathos sotto il Cervino

 Estate 2009, blitz di un weekend in Valdaosta, sotto il monte Cervino. Torno dopo un quarto di secolo in questo scenario di terribile bellezza, e l'aggettivo non è gratuito. Di quella prima volta ricordo piste da sci da favola, e l'angosciante e continuo ronzio degli elicotteri, che per una settimana intera scandagliarono crepacci in cerca di un bimbo disperso.

Stavolta è d'estate, altra scena: meno spettacolo, meno adrenalina. Cervinia appare una nobildonna in cerca di lifting. Dall'asciugacapelli in hotel a Valtournenche, fino alla vecchia stazione di funivia, qua è là affiorano sintomi di decadenza, talvolta neppure troppo recenti. Vetrine di lusso un po' demodé, altre sguarnite per chiusura attività; residence a volte deserti. l boom sembra alle spalle, anche se il target di fascia alta continua a sciamare per il centro, in una domenica d'improvvisa pioggia. Al lusso di ieri pare sostituirsi la rendita di oggi: quella degli immobiliaristi, e di chi ha permesso loro di sbancare pezzi di montagna e costruire ancora, prova ne siano i cantieri attualmente in corso. Se nel film “Italia K2” girato negli anni '50 si parlava di “scempi dell'uomo” riferendosi ai primi condomini, quella tradizione a Cervinia sembra oggi rinverdita.

C'è però anche dell'altro, per fortuna. Accoglienza mediamente cordiale (il top, madre e figlia del bar di piazza a Valtournenche), operosità, pulizia e tranquillità nella gente. E soprattutto, c'è quello che c'era già prima, ovvero i paesaggi naturali. La molla di curiosità che mi ha riportato quassù si chiamava Lago blu. E il sopralluogo non è stato inferiore alle aspettative. Un piccolo specchio d'acqua, nel senso letterale del termine, dove si riflette sua maestà il monte Cervino: una cartolina per eccellenza, sorprendente nel suo essere naturale. In un sabato di sole caldo, ma non troppo, è stato il degno avvio di una giornata di cammino, scandita a passo lento ma costante percorrendo solo parte dei numerosi sentieri disponibili e molto ben segnalati che s'inerpicano tra valle e monti. Ci si imbatte in fiori variopinti, vedute che lasciano attoniti, pievine di montagna, mucche al pascolo, marmotte, sorgenti e cascate: si costeggia il lungo campo da golf, ci si ferma nelle tante attrezzate aree di sosta. Si osserva, si ascolta, si gode di una natura davvero grande, a questa latitudine.

La mezza estate da queste parti, e in particolare a Valtournenche, significa anche Cervino Cinemountain: un festival di corto e lungometraggi dedicati alla montagna ed ai suoi protagonisti. Toccante il “Karl” di Valeria Allievi dedicato ad un giovane alpinista altoatesino morto su una cima asiatica nel 2008. Toccante per fotografia e sonoro, oltre che per i contenuti: anche nel buio di un cinema puoi rammentarti cosa significhi una passione vera per chi la vive, di quanto essa giustifichi – finché genuina - anche i suoi aspetti che appaiono irrazionali. “C'è sempre qualcuno che si chiede, difronte a una disgrazia in montagna, 'che c'è andato a fare' – dice nel film il climber Simone Moro – solo chi ha provato la montagna lo sa”. Vale lo stesso per il calcio, l'arte, il Palio. Almeno finchè il pathos, come detto, è autentico.

Sempre in tema, coinvolgente anche la rievocazione dell'impresa del K2 fatta in piazza la sera del sabato, riproponendo la pellicola che ne celebrò le gesta; di spessore, infine, la piece teatrale sulla figura di Norberto Bobbio, cervinese nelle vacanze da sempre, rappresentata l'ultima sera. Un festival di numeri non grandi, ma ricco di passione – rieccola - nell'impegno dei suoi giovani organizzatori. Che a luci spente si abbracciano, senza chiasso ma con intensità.

Alla fine però, l'aspetto più sorprendente di questo weekend valdostano è stato il condividerlo con mio padre, che poi era anche il motivo primo del viaggio. Sorprendente nel vederlo intatto nel suo essere cordiale, sorridente, ben disposto al contatto casuale e pronto a cogliere occasioni di sorriso anche in pochi secondi di casuali convenevoli. Cosciente di limiti fisici, ma al tempo stesso capace di coglier tutto il buono di quanto ci si parava intorno, anche in un giorno di pioggia. Divertito a scoprire l'interno di un treno Frecciarossa, brontolone verso gli eccessi edilizi e i guadagni che ci stanno dietro. Mentre mi tornano in mente i trenini che mi comprò da piccolo e dei quali mi sono colpevolmente disfatto, mi rallegro per quanto di intimamente bello ho condiviso in quelle ore. E spero di farne tesoro 

(agosto 2009)

RIACE, I NUOVI BRONZI ARRIVANO COL BARCONE

C'era una volta un paese dove gli immigrati approdavano via mare, i residenti li accoglievano per dare nuova vita al borgo, e tutti insieme trasformavano in presente un futuro senza delinquenza e criminalità organizzata. Dalle favole alle realtà, quel paese un bel giorno si materializzò nel sud dell'Italia, laddove anni prima erano riemerse dal mare due tra le più belle sculture di sempre: lo fece laggiù e forse mai più altrove, ma questo è ancora da dimostrare.


Quel borgo è Riace, 800 abitanti circa, confine nord della provincia più a sud d'Italia, isole escluse. E' qui che da una decina d'anni ha preso forma, gradualmente, l'utopia possibile dell'integrazione in vece dei centri di identificazione temporanea; da poco se ne è accorto anche il cinema e quest'estate i media di tutto il mondo, grazie alla storia di Ramadullah e Wim Wenders. Ma Riace è ben più che scenografia, da un tempo ormai abbastanza lungo per non poterla considerare un'esperienza effimera.


Nel 1998 erano già passati un bel po' di anni da quando i famosi Bronzi furono ripescati e poi trasferiti altrove. Con la popolarità del momento se n'erano andate scemando anche le occasioni di lavoro: viceversa, da qualche tempo gli sbarchi di clandestini a Riace marina e dintorni cominciavano a farsi più numerosi dei residenti residui. Domenico Lucano, all'epoca insegnante 40enne, ha allora l'intuizione-ambizione di convertire quel 'problema' in una opportunità di rivitalizzazione per il paese che sta morendo. Di lì a poco nasce “Città futura”, organismo no profit che punta a creare presupposti di inserimento lavorativo (e quindi sociale) per i profughi in arrivo dal Kurdistan, dall'Afghanistan, dall'Eritrea. Qualche anno più tardi, nel 2004, Lucano alza la posta, candidandosi a sindaco con un unico punto di programma elettorale: utilizzare le case abbandonate in paese dai riacesi emigrati per alloggiare immigrati disposti a ricreare la comunità, e ad imparare un mestiere. Viene eletto (lista 'un'altra Riace è possibile', orientata a sinistra), e così anche nel 2009.


Così oggi Riace è un microcosmo multietnico, dove bimbi bianchi, scuri o dai tratti orientali sono tornati a sciamare per le strade oltre che a scuola; dove accesi colori ravvivano l'arredo urbano, e antiche conoscenze sono tornate a vivere in nuove botteghe. E dove, peraltro, il lavoro di 'trincea' non è mai cessato. Eloquente è fare un salto in un giorno qualsiasi d'estate a palazzo Pinnarò, ex residenza di una storica famiglia locale, recuperata come sede di Città futura: in una sala trovi giovani afghani di fresco sbarco, nell'altra il Sindaco che ragiona sulla loro dislocazione assieme a giovani riacesi, o parla al telefono con le istituzioni cointeressate. “A volte ci troviamo a dover far fronte a nuovi sbarchi al ritmo di 100 persone al giorno – racconta Lucano - a momenti pensi che è impossibile andare avanti. Ma se dovessi indicare realmente il limite di resistenza del sistema-Riace, non saprei. Perché ogni giorno ci riprepariamo all'impossibile”.

Un lavoro che sa di rompicapo, in primo luogo per reperire le risorse: avviato con un mutuo Banca etica da 5mila euro, il progetto Città futura ha beneficiato negli anni del programma Sprarl per i richiedenti asilo (con una diaria da 20 euro per ogni rifugiato) ed è periodicamente rimesso in valutazione per ottenere fondi attraverso bandi pubblici. I quali, in verità, sarebbero alla portata anche di altri comuni, che salvo poche eccezioni (la vicina Caulonia ha avviato un'esperienza simile) evitano tuttavia di cimentarsi: “a mio avviso una Riace è possibile anche altrove – dice Lucano – ma dipende dalle persone. Di certo devi dare molto: la vita, in pratica”. Un sacrificio che attualmente pare in grado di tenere alla larga non solo la microcriminalità (“furti o scippi sono parole sconosciute da anni” conferma il Sindaco) ma soprattutto quella organizzata e feroce, in Calabria più che mai, che “si fa sentire sotto elezioni, ma Riace sfugge alle dinamiche mafiose locali. Forse perché ha puntato su un'economia diffusa”. L'ultimo delitto, vittima l'esponente di una cosca vibonese, risale a poco più di un anno fa. Era il 27 settembre, giorno in cui il paese – altro miracolo locale – si trasforma ogni anno in una città aperta ai Rom, che festeggiano i santi Cosma e Damiano. L'anno scorso però, dice con stizza il Sindaco, i nomadi non hanno avuto accesso alla Casa del pellegrino. La struttura, gestita dalla Chiesa, è rimasta chiusa anche in occasione dello sbarco di 122 immigrati, il 20 agosto scorso. “A parer mio, se a Locri fosse stato ancora vescovo Bregantini non sarebbe andata così” conclude Lucano. Ma questa, ormai, è un'altra storia.

(settembre 2010 -  pubblicato su mixamag.it)

domenica 8 gennaio 2012

MANILA TOWERS

 Se capiti a Manila e non ci sei mai stato, se non sei mai stato in Oriente prima, la cosa che più ti colpisce sono i Mall, i centri commerciali che da queste parti raggiungono dimensioni inarrivabili – per ora – anche ai più noti dei fashion district nostrali. A mente fredda, se ci pensi bene, capisci che la cosa più sorprendente non è il mall in sé, ma quello che ci trovi dentro: e non intendo riferimi a merci o attrazioni. Intendo plastici: riproduzioni in scala di nascenti insediamenti residenziali che spesso e volentieri accompagnano la passeggiata interna dei clienti-visitatori. Perché chi è proprietario di un mall solitamente detiene importanti partecipazioni in grandi aziende di costruzioni, o viceversa, come peraltro accade ad alcuni grossi players della telecomunicazione filippina. E così alla fine la merce più ambita, quella che in modo subliminale calamita i desideri delle masse che qui dentro sciamano, non sono né gioielli, né vestiti firmati, né articoli elettronici: sono i 'condo”, pezzi di immaginata gloria all'interno di costruzioni che si rincorrono verso il cielo e che qui, invece di grattacieli, chiamano towers. Le towers si vendono nei mall: tra un negozio e l'altro ci sono più plastici che coffee shop, ed accanto ad ogni plastico c'è il bravo venditore di condo-living, ovvero del sogno di essere tra coloro cui spetta una vista panoramica sulla “vita”. Ovvero su MetroManila, quell'agglomerato di città a perdita d'occhio che è oggi la capitale del paese.
Emotivamente, vivere in un appartamento ad un 36° piano equivale a partecipare a quella corsa verso lo sviluppo che si propaga sempre più un verticale, ovvero in altezza, come grosso modo avveniva con le torri medievali alle nostre latitudini. All'atto pratico, prender dimora in una tower equivale ad affacciarsi su un skyline grigiastro, il cui orizzonte è indistinguibile nei contorni, che a sera si macchia di luci elettroniche a milioni, e che per lo più raramente risplende sotto un sole pieno. Per un neofita in arrivo dalla vecchia Europa, è difficile capacitarsi di come un filippino possa apprezzare o bramare di vivere a Manila. L'area metropolitana (MetroManila, appunto) della capitale assomma ormai non meno di 12milioni di abitanti, ma probabilmente sono e soprattutto saranno in futuro anche molti di più. Quasi nessuno di loro spende almeno parte della propria giornata in una piazza, caposaldo classico (agora) della cultura occidentale: non ne esistono e sono molto rari anche i parchi pubblici, addirittura rarissimi gli spazi di intrattenimento per bambini. Il luogo d'incontro tipico è la strada, dove la densità media – di esseri umani come di mezzi su ruota, dai risciò ai caratteristici jeepney – è superiore a quella di Secondigliano o San Giorgio a Cremano, rinfoltita molto spesso da vecchi, adulti o bambini il cui ricovero notturno è una baracca in lamiera. Un'altra forte barriera, per chi arriva dall'altro lato dell'emisfero, è il clima: per buona parte dell'anno la capitale e le filippine in genere fanno i conti con la stagione delle piogge, ed alla temperatura che comunque raramente scende sotto i 25 gradi si somma un tasso di umidità che si avvicina dal 100 per cento. Così edifici pubblici, grandi magazzini ed ogni luogo proteso ad accogliere gente ha buon gioco nell'allettarla con artiglierie pesanti di aria condizionata: milioni di bocchettoni che sparano aria calda all'esterno dell'edificio e, l'impressione è chiara, contribuiscono nel tempo a rendere ancora più opprimente il clima.
Con tutto questo, per uno di quegli affascinanti misteri della vita, incrociare gente che sorride per le strade di Manila è decisamente facile. Gente che magari con una periodica passata di manicure si sente per qualche istante sul tetto del mondo: “ce ne se sono migliaia qui, è un piacere richiestissimo, così come il massaggio ai capelli o ai piedi che gli uomini si lasciano fare da barbiere” racconta Cris, pensionato filippino con diversi anni di residenza in Italia alle spalle. E' anche un paese, o meglio un popolo, difficilmente incasellabile in un'identità precisa. Un paese che ha una lingua ufficiale (il tagalog) che in realtà è declinata in svariati dialetti, e che alla fine quindi parla soprattutto inglese, o meglio un mix che agli idiomi anglosassoni affianca spesso quelli lasciati dalla dominazione spagnola, durata quattro secoli. Un popolo fatto di tanti popoli, nei tratti somatici: da quello cinese a quello indiano, con frequenti influssi americani. Un paese “cattolicissimo ma che stenta a considerare da pari a pari le persone di origine africana, ed anzi ricorre più di ogni altro a prodotti sbiancanti per la pelle” dice ancora Cris, e non a caso da queste parti Michael Jackson era idolatrato come mai altrove. Un paese molto pop nella cultura di massa, ovvero molto orientato a tutto quanto viene dagli Usa, terra dei più recenti dominatori (tutta la prima metà del '900) in ordine di tempo: prova ne siano il basket primo sport nazionale, l'ampio spazio che i quotidiani riservano a fatti americani. O certi arditi slanci di marketing: come quello dei tanti candidati al Barangay, le elezioni amministrative tenutesi ad ottobre, che fuori dai seggi distribuivano frutta e verdura come gadgets per motivare gli elettori a preferirli. O come quello della Cebu Pacific airlines, la compagnia aerea che quest'anno ha sperimentato le prime hostess che ballano Lady Gaga mentre spiegano ai passeggeri le norme di sicurezza.
Anno d'elezione di “Ninoy” Aquino alla Presidenza della Repubblica, il 2010 è stato anche l'anno in cui la borsa di Manila ha raggiunto livelli record di crescita, portando le Filippine nell'anticamera delle economie emergenti. Difficilmente, tuttavia, se ne saranno accorti nelle baracche in lamiera che si accatastano empre più fitte nei dintorni dell'aeroporto; o lungo il viale a mare su cui affaccia l'imponente ambasciata americana, dove gruppi di minorenni dai capelli tinti vagano seminudi e smagriti come zombi in mezzo al traffico mai domo, e dove le poche centinaia di metri che separano l'Oceanic park dal museo per bambini sono disseminati di derelitti che dormono spiaccicati al suolo, di notte come di giorno.
Nel frattempo, all'orizzonte le nuove tower crescono incessantemente verso l'alto. Contemporaneamente, alle famiglie che affollano i Mall brillano gli occhi desiderosi di una camera con vista sulla vita. La vita dell'oriente e delle economie emergenti, che soppiantano a grandi passi il vecchio Occidente, facendone propri a mani basse i vizi, e demolendone alacremente le virtù.

(ottobre 2010)

SCRIVILO SUI MURI

 Se il destino è contro di me peggio per lui"
"Dio, fa' che il mondo si eclissi un poco alla volta.."
(lette in calabria, agosto 2009)