Se c'é un mondo verso il quale stiamo
cercando sempre più spesso di viaggiare indubbiamente questo è
Marte. L'”ammartaggio” della sonda Schiaparelli, il 19 ottobre
scorso, è solo l'ultimo in ordine di tempo. L'uomo punta su Marte
per recuperare tracce di una vita che forse un tempo c'era e poi non
c'è stata più, ma potrebbe ancora essere utile alla nostra in
termini di conoscenze.
Una delle ipotesi più verosimili è
che 'qualcosa' di più o meno improvviso abbia posto fine alle forme
organiche che un tempo popolavano quel pianeta, in seguito al fatto
di averlo reso non più vivibile. Fantascienza, forse. Ma anche la
storia del pianeta Terra probabilmente ha già registrato qualcosa di
simile, 65 milioni di anni fa, con la scomparsa improvvisa dei
dinosauri.
Giusto per fantasticare, immaginiamo
che tutti noi umani improvvisamente lasciassimo il pianeta: magari
non in modo tragico o violento, piuttosto perché grazie ad
un'accelerazione di conoscenze trovassimo il modo di identificare una
Terra gemella più ospitale e capiente, oltre al modo di trasferirci
tutti. E mettiamo che nella 'fretta' dimenticassimo di completare le
pulzie, lasciando qualche traccia in qua e là sul pianeta
originario: che cosa troverebbe quindi, un alieno che arrivasse
appena poco dopo che ce ne siamo andati?
Magari l'alieno si imbatterebbe un
ufficio informatizzato caduto in disuso. In qualche schermo video
rimasto acceso con la riproduzione in loop di filmati pià meno
datati, siano essi la cronaca delle persecuzioni di Pinochet o i talk
show pre-election day americani. Oppure, qualche manufatto un tempo
conteso a caro prezzo, tipo una tela di Fontana o una scultura di
Boccioni. Cumuli di materiali edili utilizzati nelle varie epoche,
dalla pietra grezza al cemento armato. Vagando tra le nebbia magari
l'alieno si arresterebbe difronte ad un gigantesco tronco d'albero
millenario posato su un fianco dopo l'abbattimento. E alla fine,
chissà, anche un branco di 99 lupi dal ghigno tutt'altro che
amichevole, tanto da convincere l'alieno a riprender la via delle
stelle.
La fine del mondo, inteso come pianeta
umanamente popolato, potrebbe davvero presentarsi in questo modo?
Così sembrano azzardare al Centro Pecci, la rinnovata versione del
museo d'arte contemporanea di Prato riaperto a metà ottobre dopo tre
anni di ripensamenti e lavori. “La fine del mondo” è il nome
dell'esposizione di riapertura, in cui quasi per caso mi sono trovato
a transitare un sabato pomeriggio. Scelta casuale e fortuita, perché
coincisa con una performance di danza che per l'occasione ha attratto
all'interno un pubblico eterogeneo e moderatamente animato,
realizzando un'atmosfera ben lontana da quella cui solitamente si
associa un museo di questo tipo.
Tra famiglie, bambini, universitari in
cerca di aperitivo e coppiette di vario gusto sessuale, ho percorso
3mila metri quadri di installazioni in buona parte curiose, a volte
coinvolgenti o divertenti. Su tutte cito quella firmata Henrique
Oliveira. “transarquitectonica” (Questo è il nome dell'opera) è
un percorso che comincia in una galleria di cemento e prosegue tra
volte di mattoni, pietre e materiali sempre più grezzi: si continua
per decine di metri a ritroso nel rapporto tra l'uomo e la terra,
intesa in questo caso come grande 'cava' di materia costruttiva. Alla
fine, ci si ritrova all'interno di un grande albero, dal quale si
esce con espressione inevitabilmente sorpresa.
la parte finale di Transarquitectonica |
interno di Transarquitectonica |
Non è l'unica 'opera' che rapisce
l'interesse, ma in definitiva quel che colpisce di più è l'insieme,
ovvero l'accostamento tra espressioni artistiche (?) fortemente
diverse tra loro: per epoche, tecniche, dimensione e messaggio. Dalla
proiezione di documentari su dissidenti di vari regimi alla Venere di
Savignano, esempio di scultura risalente al paleolitico; dalle “Forme
uniche e continuità nello spazio” di Boccioni agli scolari
dall'angosciante e vuoto sguardo realizzati da Tadeusz Kandor; fino
ai 99 lupi imbalsamati, dislocati in varie pose a fine percorso
secondo il volere di Cai Guo Jang.
Boccioni e Fontana |
Tadeusz Kandor |
Venere di Savignano |
Il quesito che resta in testa,
all'uscita dalla mostra, non è tanto “come ha fatto” questo o
quell'artista a concepire o realizzare l'installazione, quanto il
ricorrente dubbio di fondo: anche questa è arte? Dove si pone
obiettivamente il confine tra ciò che è e ciò che non lo é?
L'enciclopedia Treccani contrappone due
visioni: afferma che “in senso lato, è arte ogni capacità di
agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e
di esperienze conoscitive e tecniche, quindi anche l’insieme delle
regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista
di determinati risultati”; aggiunge poi che “il concetto di arte
come tèchne, complesso di regole ed esperienze elaborate dall’uomo
per produrre oggetti o rappresentare immagini tratte dalla realtà o
dalla fantasia, si evolve solo attraverso un passaggio critico nel
concetto di arte come espressione originale di un artista, per
giungere alla definizione di un oggetto come opera d’arte.
Nell’ ambito delle cosiddette teorie del ‘bello’, o
dell’estetica, si tende infatti a dare al termine un significato
privilegiato, per indicare un particolare prodotto culturale che
comunemente si classifica sotto il nome delle singole discipline di
produzione, pittura, scultura, architettura, così come musica o
poesia”.
La definizione non fornisce molti
elementi per risolvere il quesito; almeno, non a me in questo
momento. Potrei provare a cavarmela definendo come “artistica”
una espressione che sia originale, unica e irripetibile, creata
dall'uomo utilizzando specifiche tecniche compositive, e capace di
suscitare un'emozione; ma ciò non basta a delimitare con certezza il
campo, ovvero a dire per esempio che Boccioni è arte e Cai Guo Jang
no.
E allora?
“Il mondo a venire” è un romanzo
che lo letto recentemente, nuovo caso di letteratura americana
contemporanea che fatico a leggere fino alla fine. In questo libro di
Ben Lerner però ad un certo punto i due protagonisti scoprono
l'”Istituto dell'arte irrecuperabile”, ovvero un posto dove si
raccolgono (e poi si espongono, come nelle 'normali' gallerie e
musei) opere che un tempo erano considerate d'arte, ma che per
qualche ragione (perlo più un danneggiamento, magari impercettibile)
hanno perso tale reputazione. Con gli occhi dei due personaggi si
intuisce quanto a volte questa considerazione sia frutto di ragioni
soggettive, magari meramente venali, che ben poco hanno a che fare
con i cosiddetti 'canoni estetici' di valutazione. Uno di loro, ad
esempio, afferma nel libro: “Esaminai la foto di Cartier-Bresson.
Era passata dall’essere depositaria di un immenso valore
finanziario all’essere dichiarata priva di valore senza subire, per
quanto potessi vedere, nessuna percepibile trasformazione materiale:
era la stessa cosa, solo totalmente diversa”.
Il dubbio, insomma, perdura. Esco dal
Centro Pecci, mentre intorno si è fatta sera. Sotto le luci
artificiali risalta la fisionomia dell'edificio-museo, chiaramente
assimilabile a quella di un'astronave. A chiarirci i dubbi forse ci
penseranno gli alieni.
Vigilante a guardia di Duchamp |
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